Prefazione
II titolo del libro La salvezza è nell'amore può essere modificato. La parola «amore» può essere sostituita con «Dio, Chiesa». Diventano così possibili altri titoli: «Fuori di Dio non c'è salvezza»; «Fuori della Chiesa non c'è salvezza».
Quest'ultima affermazione è di san Cipriano (L'unità della Chiesa Cattolica, 6). L'affermazione è esatta, ma va completata da quella presente nella costituzione dogmatica sulla Chiesa: «Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa con il corpo, ma non con il cuore» (Lumen gentium, n. 14).
Il presente libro intende dimostrare il significato della frase conciliare. Le tesi qui esposte, vengono illustrate graficamente con dieci disegni schematici.
Molte idee, qui solo accennate, si possono trovare sviluppate nel mio libro, in polacco: Milosc synteza chrzescijanstwa (L'amore sintesi del cristianesimo), Lublin 19912.
Con il presente lavoro intendo presentarne una sintesi di facile e immediata divulgazione.
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I. definizioni del termine «AMORE»
La parola «amore» è ricchissima di significati. Per questa ragione spesso la si accompagna con un'opposizione o un attributo, per specificarne la natura. Si parla così dell'amore materno, paterno, filiale e fraterno, si parla dell'amore dei fidanzati, dell'amore spirituale e sensuale, dell'amore platonico.
In queste pagine desidero occupami dell'amore «cristiano», cioè dell'amore che ci diede e insegnò Gesù Cristo, che fu trasmesso dagli apostoli e di cui si rendono responsabili la tradizione e il magistero della Chiesa. La lingua greca, nella quale è stato scritto il Nuovo Testamento, possiede quattro termini che possiamo tradurre con la sola parola «amore». Si tratta dei sostantivi: eros, storghé, filìa, agape.
Eros indica l'amore passionale, in particolare la concupiscenza sessuale, il desiderio, l'amorosa nostalgia. Si volge di più verso l'elemento spirituale l'eros platonico, inteso come una personificazione dell'amorosa nostalgia. Nei Dialoghi di Fiatone l'eros appare come «bello» e «il meglio». Mobile, ineffabile nelle sue forme, giusto, valoroso ed equilibrato, è datore di concordia, di pace e di amicizia.
Storghé significa amore, tenerezza, affezione; raramente l'amore sessuale.
Il termine filia significa amicizia, affezione, amichevolezza, cordialità; qualche volta indica l'affetto tra gli amanti, l'attaccamento a qualcosa, il compiacimento in qualcosa.
Il sostantivo agape, il meno conosciuto nella letteratura precristiana, possiede i seguenti significati: amore, amore tra marito e moglie, amore di Dio per l'uomo, amore fraterno, misericordia, convito dell'amore, elemosina.
Da questo breve resoconto emerge che il termine più libero da equivoci e, perciò più adatto alla terminologia biblica, era il sostantivo agape. Per questo i traduttori dell'Antico Testamento l'hanno scelto nella versione dei Settanta.
Similmente hanno agito gli autori del Nuovo Testamento che fanno uso soltanto del sostantivo agape. È bene rendersi conto che nel Nuovo Testamento, per significare l'amore, non si usano mai i sostantivi: eros, storghé, filìa.
Una eccezione del tutto particolare costituisce il verbo filéo (amo), che nel Nuovo Testamento è stato usato cinque volte, nella consegna del potere pastorale a Pietro da parte di Gesù (Gv 21,13-17, qui ripetuto due volte).
Un'altra eccezione è il sostantivo filadelfìa (filéo = amo, adelfos = fratello) che appare sei volte (Rom 12,10; iTs 4,9; Eb 13,1; iPt 1,22; 2Pt 1,7).
Le eccezioni or ora riportate confermano la regola, cioè che gli autori del Nuovo Testamento preferiscono
- il sostantivo agape (116 volte);
- il verbo agapao - prediligere (173 volte);
- e anche l'aggettivo agapetós - prediletto (61 voi-te).
Nella lingua latina i termini greci agape e agapao possiedono quattro equivalenti: tre sostantivi caritas, charitas, dilectio e un verbo diligo. Il sostantivo greco eros veniva tradotto con il termine amor, facendo uso anche della forma verbale amo.
Nella letteratura patristica si constatano due tendenze. Da un lato, i Padri, alla guisa degli autori biblici, usavano i termini: agape, agapao, diligo, dilectio, caritas, charitas; dall'altro, cedendo ai forti influssi del platonismo, per significare lo stesso amore introdu-cevano i termini: eros, amor, amo (Origene, Massimo il Confessore, Pseudo-Dionigi, Agostino).
Agostino, facendo questa scelta, spiegava che ciò che conta non è la definizione nominale, ma la buona volontà di chi agisce nello spirito del vero amore. Tenendo presenti anche le enunciazioni di altri Padri della Chiesa, si può dire che l'amore cristiano è un amore ordinato, secondo il Vangelo, secondo il pensiero della Sapienza divina. Questo amore, venuto da Dio, è ricco e multiforme, e sorpassa ogni possibilità del dire umano.
Bisogna però aggiungere che la prima tendenza, iniziata dagli autori ispirati e basata sull'autorità del testo sacro, è decisamente più duratura e dominante in tutta la letteratura patristica.
Si ha l'impressione che nel nostro tempo, contrassegnato dall'indifferentismo etico, valga la pena di ritornare - per evitare ogni equivoco - ai termini agape, agapao, usati per significare l'amore cristiano.
Proprio per questa ragione nel titolo del nostro libro diciamo chiaramente che si tratta dell'amore-agape, l'amore cristiano, l'amore ordinato secondo l'insegnamento di Cristo. Questo amore è uno solo. L'amore umano, soltanto se diventa tutt'uno con quello divino, se è sincronizzato con esso, è vero amore fino in fondo, è gioioso e bello.
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II I confini dell'amore CRISTIANO
II ruolo-chiave per definire l'ampiezza dell'amore cristiano spetta al testo di san Giovanni: «Dio è amore» (iGv 4,8.16). Questa affermazione non lascia dubbi sul fatto che l'amore, nella sua pienezza, raggiunge Dio nella sua essenza. Dio è l'essere perfetto. Per questo anche l'amore, che è Dio stesso, è un amore perfetto.
La Sacra Scrittura insegna che Dio è buono (Me 10,18; Le 18,19), veridico (Gv 3,33), il solo sapiente (Rom 16,27), ricco in misericordia (Ef 2,4), perfetto (Mt 5,48), giusto (IGv 1,9; Rom 3,26).
Se, di conseguenza, accettiamo che «Dio è amore», dobbiamo anche intendere l'amore nel suo significato più vasto, al di sopra di tutto e che comprende bontà, veridicità, sapienza, misericordia, perfezione e giustizia.
Un'altra importantissima constatazione di san Giovanni è che «l'amore è da Dio» (IGv 4,7). Dio, dunque, non soltanto è l'amore in se stesso, ma è la fonte dell'amore. Per amore Dio ha creato il mondo e l'uomo. L'uomo, creato a immagine e somiglianzà di Dio, dalla Sapienza divina è stato destinato a partecipare al suo amore.
Dio, che ha a cuore il bene dell'uomo, affinchè non perdesse mai questa prospettiva, gli ha fatto dono del precetto dell'amore: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,37; Me 12,30; Le 10,27).
Siccome normalmente limitiamo l'amore solo alla sfera degli affetti, l'esigenza di amare Dio con tutto il cuore è abbastanza chiara, mentre il dovere di amarlo con tutta la mente a molti sembra incomprensibile, se non impossibile.
Poiché Dio non comanda cose impossibili, bisogna ritenere che l'amore che egli ci chiede, abbraccia tutto l'uomo, nella sua totalità: non solo la sfera affettiva e volitiva, ma anche quella intellettuale.
Più avanti cercherò di spiegare che cosa significhi e comporti questo precetto di amore. Nella letteratura cristiana incontriamo spesso la tendenza a restringere l'ampiezza dell'amore cristiano a una sola delle sfere citate.
Alcuni riconducono l'amore unicamente alla sfera affettiva (F. Sawicki). San Tommaso d'Aquino definisce l'amore come «desiderio del bene» (appetitus ad bonum] e come «compiacenza nel bene» (complacen-tia boni}.
Altri pongono l'accento sulla sfera volitiva (J. Pie-per, sant'Agostino). Molti teologi danno la precedenza alle facoltà conoscitive (per es., san Massimo il Confessore).
Altri ancora comprendono l'amore nel suo aspetto attivo, come fare del bene, oppure lo identificano con una virtù.
Tutti questi punti di vista sono corretti se vengono considerati quali aspetti diversi della stessa realtà, cioè quando vengono trattati come «una parte del tutto» (pars prò toto). E un errore e una deformazione voler ridurre l'amore cristiano solamente a una delle suddette dimensioni.
Ci sono altre espressioni che mettono in evidenza il carattere prioritario dell'amore, rispetto agli altri valori. Gli scrittori sacri dicono che l'amore è il primo e il massimo dei comandamenti (Mt 22,36); è un «fine-fondamento», dal quale dipende o sul quale poggià tutta la rivelazione di Dio (Mt 22,37-40; Dt 6,5); è l'essenza di tutti i comandamenti, è la pienezza della legge (Rom 13,37-40); è il legame della perfezione (Col 3,14).
Nelle testimonianze extrabibliche l'amore viene definito come perfezione e santità, la radice di tutti i beni, il bene principale, madre, fonte e radice del bene, la misura della presenza di Dio in noi, il compimento di tutti i valori, l'essenza della teologia mistica, la Chiesa, il dono noncreato, il mistero intcriore di Dio, il perno della teologia, la principale energia della salvezza, il contenuto centrale della salvezza.
Per questo H. Preisker ritiene giustamente che l'amore non è una delle tante virtù, ma che le comprende tutte al suo interno; C. Spicq dal conto suo afferma che l'amore abbraccia tutta la vita religiosa e morale.
Per analogia si potrebbe dire che l'amore svolge il ruolo della calce. Come grazie alla calce si consolida una costruzione composta di tanti mattoni, così grazie all'amore, che lega e unisce tutti gli altri valori, si innalza «l'edificio» della perfezione cristiana.
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III. tentativi di definizione dell'amore cristiano
Le espressioni bibliche riguardanti l'amore non sono da intendere come definizioni scientifiche; al contrario nella letteratura patristica si trovano numerosi tentativi per raggiungere una definizione dell'amore.
Nello Pseudo-Dionigi ne incontriamo due: la prima, di carattere generale; la seconda descrittiva, per immagini. «L'amore, sia esso divino, angelico, spirituale, sensuale o naturale, è la forza che unifica e dirige; la forza che inclina benevolmente gli esseri superiori verso gli esseri inferiori, gli esseri alla pari a diventare amici, gli esseri inferiori a rivolgersi verso quelli superiori» (I nomi di Dio 4,15).
Successivamente «il santo amore» è descritto come ciò che non conosce né inizio né fine; rassomiglia a un cerchio eterno, dove il bene costituisce la sua superficie, il suo centro e il suo raggio (ivi).
Si presenta spontaneamente alla mente un'illustrazione grafica di questa frase: l'amore è «come un eterno cerchio», cerchio che simbolizza la bontà, l'unità, l'eternità di Dio. Sappiamo anche che in Dio ci sono tre Persone.
Per significare questa verità dentro il cerchio disegniamo un triangolo, simbolo della Trinità. Il risultato è un grafico ben conosciuto nella storia dell'arte sacra, che esprime le tre Persone nell'unico eterno Dio, che è amore.
Per non perdere i dati della prima definizione, cioè che l'amore è una forza (dynamis) che attira gli esseri gli uni verso gli altri, sulla circonferenza del cerchio bisogna tracciare delle frecce. Una specie di supplemento alle definizioni citate sopra lo troviamo in questo testo di san Clemente Alessandrino, contenente quasi tre definizioni dell'amore.
«L'amore è un consenso a tutto quanto è in rapporto con la ragione e con il comportamento di vita o, per dirla in breve, comunanza di vita, fervore di amicizia e di affettività, unita a retta ragione nel trattare con persone amiche» (Stremata II, 41, 2).
L'amore (agape) sarebbe, in sintesi, una comunione di vita. Se accostiamo questo testo alla definizione giovannea: «Dio è amore» (iGv 4,16), ne ricaviamo che l'amore è la comunione di vita delle tre Persone divine: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tra le Persone divine esiste perfetta unanimità, unità, con-cordia (homonoia), nelle cose che appartengono:
- alla sfera intellettuale: «...come mi ha insegnato il Padre, così io parlo» (Gv 8,28); «II Consolatorc, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26);
- alla sfera esistenziale: «...io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,10);
- alla sfera morale: «...non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30).
Dio è vita. Cristo, l'uomo Dio, «è verità e vita» (Gv 14,6). Dio, unico nella Trinità, è comunione di vita. Questa comunione contiene la forza (dynamis), che fa volgere le Persone divine l'una verso l'altra per una coesistenza alla pari; la forza è l'amore del Figlio per il Padre e del Padre per il Figlio, che diventa persona: lo Spirito Santo.
Un'immagine di questa comunione di vita delle Persone divine ci è data dalla vite (Gv 15,5). La vite vive grazie alla linfa che in essa circola. Per analogia si può dire che la divina comunione di vita possiede una specie di linfa, la forza divina (dynamis).
Se questa è la realtà, allora si comprende l'amore e si scopre la sua duplice dimensione: strutturale, cioè la realtà della vera vite e dinamica, cioè la forza divina, detta anche «fuoco» («il nostro Dio è un fuoco divoratore», Eb 12,29).
In tale senso l'amore non è soltanto una relazione tra le persone. La divina agape è una realtà eterna, trascendente, è un essere, una sostanza. Per questo la Sacra Scrittura, parlando dell'agape, usa i verbi «avere» (echein), «permanere, rimanere, essere» (manein, einai).
Cristo esorta i suoi discepoli: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Dio è amore; chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio in lui» (Gv 4,16).
Il testo di san Clemente Alessandrino spiega anche che cosa è l'amore-agape, nella sfera esistenziale: uno zelo nell'amicizia e nella cordialità. La forza divina conduce le Persone divine a un rapporto di amicizia reciproca. Grazie a questa forza le Persone divine, in un'unica essenza divina, in modo pieno e perfetto, esistono l'una per l'altra.
Questa forza, per la sua natura, induce gli esseri alla reciproca donazione di se stessi e dei loro beni: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Gv 16,15); «...II Padre gli aveva dato tutto nelle mani» (Gv 13,3; cf. Mt 26,53; Le 10,22).
L'amore è forza che induce a soffrire e donarsi fino al dono della vita. Il Figlio, accogliendo la volontà del Padre, ha sofferto la passione e la morte sulla croce. Non siamo capaci di comprendere fino in fondo questo amore divino, così come non siamo capaci di comprendere fino in fondo l'essenza di Dio stesso.
«L'amore, che è un dono noncreato, appartiene al mistero interiore di Dio» (K. Wojtyla). Il Padre per mezzo dello Spirito Santo e del Figlio suo ci ha rivelato alcune verità sull'amore divino.
Coscienti della debolezza del conoscere umano tentiamo di descriverlo e di definirlo con parole umane. Alla luce delle considerazioni fatte, l'amore - agape si presenta a noi come la divina comunione di vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, resa dinamica dalla forza divina (dynamis), che è l'eterna causa della perfetta unità e unanimità (homonoia) delle divine Persone.
Si tratta della forza che induce alla coesistenza amichevole e alla reciproca donazione di ogni bene, della forza che abilita al più grande sacrifìcio di sé, fino a donare la propria vita.
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IV. L'UOMO PARTECIPE dell'amore di Dio
Appartiene alla natura dell'amore la tendenza a condividere con gli altri i beni che si possiedono. Dio, che è amore, «creò l'uomo per farlo partecipe dei suoi beni» (Gregorio da Nissa). L'uomo è, dunque, «opera di Dio, chiamato all'esistenza dalla sua bontà».
Dio, il quale solo per «amore ci ha fatti» (Giovanni Crisostomo), desiderò privilegiare l'uomo ponendolo in una posizione particolare. L'uomo, che corona l'opera della creazione, signore della natura animata e inanimata, dotato di ragione e di libera volontà, è stato creato a immagine e somiglianzà di Dio.
Nella sua attitudine a condividere i propri beni, Dio è andato ben oltre. Desidera che l'uomo sia pienamente felice, come egli stesso lo è. Per questo l'arricchisce della sua amicizia.
La Bibbia, per descrivere questo stato di felicità dell'uomo, parla del paradiso, luogo della sua dimora (Gen 2,8). L'uomo, come persona, diventa così partner nell'amicizia con Dio-Trinità.
Per illustrare questo stato di amicizia, nel nostro disegno (p. 20), bisogna aggiungere un secondo triangolo, simbolo della persona umana, con un punto di contatto con il cerchio in cui è racchiuso il primo triangolo. Dio ha voluto rendere l'uomo partecipe del suo amore divino; tale partecipazione dipende da una libera scelta dell'uomo e dalla sua apertura all'amore di Dio. L'amore, infatti, può esistere solo nelle persone che si aprono reciprocamente e liberamente le une alle altre.
La risposta dell'uomo all'amore di Dio all'inizio era positiva. I «primi genitori», come dice sant'Agostino, «vivevano secondo Dio» (De civìtate Dei 14,11,2), cioè in concordia con lui; la loro esistenza era armoniosa unità con la sapienza e la volontà divina.Questa amicizia è stata sottoposta a verifica dalla tentazione di satana. L'uomo, rifiutando l'insegnamento di Dio e accogliendo «la catechesi» di satana, spezzò l'unità con Dio nella sfera intellettuale; rifiutando gli insegnamenti divini, perse l'unità con il Creatore nella sfera volitiva. L'uomo preferì satana che prometteva nuove conquiste, al rispetto dei comandamenti di Dio.
L'egoismo ebbe la meglio sull'amore per Dio, sull'amore pronto al sacrificio e alla rinunzia. L'amor proprio divenne la causa dell'allontanamento dell'uomo dall'amore di Dio. Il peccato originale, nella sua essenza, fu un voltare le spalle a Dio da parte dell'uomo. L'uomo si è allontanato da Dio.
Per esprimere questo concetto nel grafico (p. 22), bisogna allontanare il secondo triangolo, che indica l'uomo, dal cerchio. Tra Dio e l'uomo vi è un abisso.
Dio, perfetto nel suo amore e nella sua sapienza, prende allora nuove iniziative e le realizza. Non poteva concedere che satana rovinasse il suo progetto eterno; decide, allora, di ricondurre l'umanità al suo amore per mezzo del Figlio, nuovo Adamo.
Dio vuole «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). Per questo manda il suo Figlio Unigenito, che si fa uomo. Rimanendo Dio, nell'unità con il Padre e lo Spirito Santo, ha preso «forma umana», nascendo dalla Vergine Maria.
Per illustrare questa verità, dal primo triangolo inscritto nel cerchio, immagine di Dio, bisogna far uscire un nuovo triangolo che abbracci il secondo in basso (p. 23).
In questo modo Cristo è diventato il ponte che ricongiunge nuovamente gli uomini con Dio: solo per mezzo di Cristo si può ritornare a Dio. Tutto ciò che concerne la salvezza si compie per mezzo di lui e in lui. Per suo mezzo si realizza il ritorno e l'accesso al Padre. La divina comunità di amore, grazie all'incarnazione, è diventata una comunità di amore divino - umana.
Il Concilio Vaticano II parla «dell'amore di Dio e di Cristo» (Lumen gentium 6). Ora la pienezza dell'amore è in Dio e in Cristo, in una dimensione divino - umana. Di conseguenza, per la potenza di Dio, tutta questa nuova realtà è stata immersa nella «linfa di vita divina» della «vite».
Per illustrare questa verità bisogna che dal primo cerchio ne parta un secondo, capace di abbracciare il triangolo sottostante (p. 25).
Cristo ha affermato: «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,5). I tralci sono innestati nel tronco della vite: ciò si compie tramite il sacramento del battesimo celebrato «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». L'uomo, innestato nella vita della Trinità, viene abbracciato dalla potenza di Dio, dalla linfa della «vite».
L'uomo riceve la vita nuova, «rinasce dall'alto» (Gv 3,3). «Il battesimo dona la grazia della nuova nascita in Dio Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo» (Ireneo). Per questa ragione il battesimo è il primo dei sacramenti, il più importante e necessario per la salvezza.
Nel dialogo con Nicodemo Gesù afferma: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5); inviando i discepoli affida loro il compito di insegnare e di amministrare il battesimo: «Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).
Tramite il battesimo il neofita riceve «lo Spirito di vita» (Rom 8,6), lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo. Per mezzo di lui, infatti, «l'amore di Dio si è riversato nei nostri cuori» (Rom 5,5).
L'uomo, creato a immagine e somiglianzà di Dio-amore, già per sua natura desidera l'amore. San Tom-maso d'Aquino qualifica l'amore: «desiderio del bene». L'uomo desidera il bene e lo identifica con un'altra persona o in una cosa o in una azione.
Sotto la spinta di questo desiderio non sempre riesce a scegliere il vero bene. Spesso si dirige verso un bene illusorio o parziale. L'amore di Dio, che è forza, fuoco, luce (Giustino chiama il battesimo «illu-minazione»), dirige il desiderio dell'uomo al bene sommo, che è Dio.
Per illustrare questa verità nel disegno, sulla base del triangolo in basso bisogna poggiare un triangolo piccolo (p. 27), a indicare il singolo uomo inserito nella comunione di vita con Dio, per mezzo del battesimo. Le inclinazioni ai diversi beni sono simboleggiate dall'aggiunta di altre frecce.
La forza divina, proveniente dallo Spirito Santo, si unisce al desiderio umano del bene, lo irrobustisce, lo purifica e lo dirige verso Dio. In tal modo si evidenzia che l'amore viene da Dio e a Dio ritorna. Le frecce sul cerchio significano la dirczione discendente e ascendente della forza di Dio. Dio in un certo senso ci rende capaci di amarlo.
Per mezzo del battesimo l'uomo diventa partecipe della comunione di vita divina, dell'agape divina. Molti uomini, milioni di uomini ricevono il battesimo. Per significare l'inserimento di molte persone nel corpo di Cristo occorre tracciare tanti triangoli nel triangolo in basso.
Viene a formarsi la relazione Trinità-popolo di Dio, nasce un organismo mistico, composto da un capo e un corpo: è la Chiesa. Maria è la madre di Cristo, di tutto il Cristo, quindi anche del suo corpo, cioè di tutti i credenti. Il capo è Cristo, in unità con il Padre e lo Spirito Santo. Il corpo è il popolo di Dio. Il capo e il corpo sono indivisibili. Chi ama il Dio incarnato, Gesù Cristo, lo ama nella sua integrità; egli è il capo di un corpo costituito dai credenti.
L'amore per Dio è uno con l'amore per l'uomo: «Se uno dicesse: Io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore» (iGv 4,20). Cristo si immedesima con il prossimo: «In verità, in verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40); al persecutore Saulo domanda: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Sant'Agostino visualizza questo rischio con l'immagine di un uomo che, mentre da un bacio a Cristo, lo colpisce con calci ai piedi (Omelie sulla 1 Lettera di Giovanni 10,8).
Le persone che si amano tendono ad assomigliarsi e unirsi. L'uomo che ama Dio, accolto per mezzo del battesimo nella comunione di vita delle Persone divine, come figlio nel seno della famiglia, guarda intensamente ai suoi «genitori» e desidera assomigliar loro. Nel bambino vi è l'istinto dell'imitazione.
L'uomo, per mezzo del battesimo, diventa figlio di Dio «...e lo siamo realmente» (IGv 3,1). «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (Gai 3,26-27). «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità...» (Ef 5,1-2).
Camminare nella carità vuoi dire imitare Dio, che è amore; significa «rivestirsi» di Cristo.
Questo processo, che qualifica l'amore come unanimità (homonoia) delle persone nella sfera intellettuale, morale ed esisteziale, comporta l'accordo (armonia) con Dio di tutta la persona umana. In Dio c'è la pienezza della conoscenza, della sapienza, della verità. L'uomo è chiamato ad «amare Dio con tutta la mente» (Mt 22,37). Ciò significa apprendere, per quanto ci è possibile, la conoscenza e la sapienza di Dio, ossia avere la pienezza della scienza sul mondo creato da Dio.
Questa conoscenza comprende le scienze umane, la filosofia e, soprattutto, la verità rivelata da Dio e contenuta nella Sacra Scrittura. L'amore intellettuale innesta un processo continuo di sviluppo e di crescita delle forze conoscitive. Grazie a questo sviluppo, l'uomo diventa simile a Dio; partecipando alla sua sapienza è in grado di comprendere il senso spirituale delle cose divine e umane.
La somiglianzà con Dio ingloba anche questioni della sfera morale e la libera volontà dell'uomo. L'uomo tende a unificare la sua volontà di azione con la volontà e l'azione di Dio. La volontà di Dio si esprime nei comandamenti. La prima tappa, cioè l'obbe-dienza ai comandamenti, poggia sul timore di Dio, poiché «in questo consiste l'amore di Dio, nell'osser-vare i suoi comandamenti» (IGv 5,3).
Questa prima tappa prende le mosse dall'umile riconoscimento delle nostre debolezze e peccati e della necessità della grazia divina.
Le tappe successive della crescita nell'amore sono: l'esercizio dell'ascesi (che poggia sulla speranza) e l'imitazione della bontà divina tramite le buone opere (agathopoiia). Coronamento di questo processo è l'uniformità della volontà umana con quella di Dio.
L'amore perfetto nel campo morale rende il cristiano capace di una testimonianza perfetta (martirio; martys = testimone) all'insegnamento di Cristo.
Il processo di crescita nell'amore non può escludere la sfera esistenziale. La prima tappa consiste nella preghiera fervente, soprattutto nella richiesta di perdono e nelFascesi per sottomettere il corporale allo spirituale. Nelle tappe successive c'è la preghiera di intercessione, l'Eucaristia, la confermazione, la preghiera di ringraziamento e la meditazione.
A coronamento di questo processo c'è la capacità di una preghiera incessante di lode e di contemplazione, fino a desiderare la morte, per unirci a Dio.
Gli elementi del programma di perfezione, qui esposti, possono essere chiamati con altri nomi; diverso può essere anche il numero delle tappe di crescita nell'amore, che nel nostro caso sono quattro (Clemente Alessandrino, Agostino), o essere ridotte a tre (Pseudo-Dionigi) o ampliate a sette (Agostino) o perfino a dieci (Giovanni della Croce).
L'essenziale è la crescita nella santificazione, ovvero la crescita nell'amore, un cammino che conduce a un maggiore «accordo» con Dio. Tale processo viene indicato con espressioni lapidarie diverse: «imitazione di Cristo» o «rivestirsi di Cristo».
San Paolo esorta i fedeli: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo (iCor 11,1). «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4,15).
Alla luce di tutte le precedenti considerazioni l'amore cristiano si può definire nel modo seguente: l'amore cristiano-agape è comunione di vita divino-umana, vivificata dalla potenza di Dio (dynamis), che si congiunge con il desiderio umano del bene e del bello e che conduce il popolo di Dio, per mezzo della somiglianzà a Cristo, alla piena unione con Dio Uno e Trino.
Per indicare nel grafico il processo di perfezione, del quale fin qui abbiamo trattato, bisogna sezionare il triangolo che sta in basso con linee, a significare le quattro tappe (p. 31)
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II processo di perfezionamento, di crescita nell'amore si compie nella comunione divino-umana- di vita, nell'ambito della Chiesa di Cristo. Il corpo dell'organismo è il popolo di Dio; il capo è Cristo che vive in eterna comunione con il Padre e lo Spirito Santo.
Il popolo di Dio sono i fedeli che tendono alla perfezione cristiana. Li possiamo catalogare in tre gruppi (Clemente Alessandrino, Stremata I, 173,6).
Il primo gruppo comprende quelli che non si sono ancora liberati pienamente dalla schiavitù del peccato, del male, delle cattive abitudini e passioni. Il peccato è morte, malattia e schiavitù: questi fedeli sono schiavi (duloi), hanno il cuore indurito (sclerocardijot); hanno bisogno del medico.
Nel secondo gruppo si trovano «i guariti», quelli che hanno superato la schiavitù del peccato, ma che non hanno ancora conosciuto a fondo l'insegnamento di Cristo. Obbediscono ai suoi comandi come i servi obbediscono ai loro padroni: sono chiamati «servi fedeli» (oiketai pistoi). Si esercitano nel bene, ma sono ancora deboli. Per questo hanno bisogno dell'educa-tore-pedagogo.
Nel terzo gruppo si trovano quelli che, nella misura delle proprie forze e della grazia di Dio, cercano di assomigliare a Cristo. Hanno raggiunto quasi l'amore perfetto, hanno conosciuto e capito l'insegnamento di Cristo e si sono irrobustiti nel bene. Cristo ha confidato agli apostoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Per analogia coloro che si perfezionano nell'amore possono essere chiamati «amici» (filoi).
La sapienza di Dio è infinita, perciò apprenderla sarà un impegno continuo. Gli «amici» hanno bisogno di consolidare il loro rapporto per mezzo della conoscenza. Cristo ha promesso agli apostoli di mandar loro il suo Spirito: «Quando verrà il Consolato-re, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza» (Gv 15,26). «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13).
Il gruppo degli «amici» ha bisogno del maestro.
A tutte le necessità del popolo di Dio risponde Cristo-capo, che per il suo corpo diventa, a seconda delle situazioni: medico (iatros), pedagogo (paidagogos) e maestro (didascalos]. Cristo ha cura del proprio corpo, lo educa e lo conduce alla perfetta conoscenza nell'amore.
In questa prospettiva tutta la Chiesa assomiglia a una scuola, è la scuola di Cristo, la scuola del Verbo divino - Logos (Didaskaleion tu Logu, scrive Clemente Alessandrino nel Pedagogo III, 98,1-3).
Questa comunione di vita divina-umana richiama un'altra istituzione: la comunità di una nazione (polis, Clemente Alessandrino, Stromata IV, 172, 2-3). In questa «nazione perfetta» Cristo è re (basileus) e legislatore (nomothetes}.
La legge di questa polis è quella dell'amore data da Cristo re. Nella polis perfetta è compito del legislatore stimolare i cittadini a una vita virtuosa.
Nella polis cristiana, la Chiesa, Cristo, il Logos divino, re e legislatore, cura, educa e ammaestra il suo popolo; lo esercita nel bene e nella sapienza e lo conduce al perfetto amore-agape.
Per realizzare la sua opera Cristo ha chiamato i dodici e li ha costituiti «sotto la forma di un collegio o di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro» (Catechismo della Chiesa Cattolica 880 [= CCC]). La consegna della potestà pastorale a Pietro è avvenuta quando questi, per tre volte, ha confessato il proprio amore a Cristo:
«Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli disse: Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo: Simone di Giovanni, mi vuoi bene? Gli rispose: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli disse: Pasci le mie pecorelle. Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,15-17).
Cristo ha fatto dipendere dall'amore la trasmissione a Pietro del potere pastorale su tutta la Chiesa; un amore grande, più grande di quello degli altri, confermato per tre volte. Cristo ha rivolto a Pietro queste parole:
«Io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cicli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,18-19).
«Del solo Simone, al quale diede il nome di Pietro, il Signore ha fatto la pietra della sua Chiesa... Ma l'incarico di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo. Questo ufficio pastorale di Pietro e degli altri Apostoli costituisce uno dei fondamenti della Chiesa; è continuato dai vescovi sotto il primato del Papa» (CCC 881).
«Il Papa, vescovo di Roma e successore di san Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli. Infatti il romano Pontefice, in virtù del suo ufficio di vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente» (CCC 882).
«I vescovi, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell'unità nelle loro Chiese particolari. In quanto tali esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del Popolo di Dio che è stata loro affidata, coadiuvati dai presbiteri e dai diaconi» (CCC 886).
La legge massima, obbligante tutti i discepoli di Cristo, indipendentemente dal loro grado nella gerarchla della Chiesa, è quella dell'amore, il testamento lasciato da Cristo durante l'ultima cena:
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
L'amore reciproco, sull'esempio e nella misura di Cristo, è il segno distintivo e la prova dell'autenticità della sequela. È misura sia dell'amore per Cristo, sia dell'efficacia dell'azione della Chiesa. Il corpo di Cristo, il popolo di Dio, viene edificato dall'amore di Pietro e dei suoi successori e dai vescovi, sacerdoti, diaconi. Con il loro aiuto il popolo di Dio è condotto verso la santità, ossia verso il perfetto amore.
Cristo cura, educa e ammaestra il suo corpo, il popolo di Dio, servendosi della bocca e delle mani di Pietro e dei suoi successori, degli Apostoli e dei loro successori, insieme ai sacerdoti e ai diaconi. Pietro è la roccia, il fondamento. Il fondamento sta alla base di una costruzione.
Per esprimere graficamente questo pensiero, alla base del triangolo (p. 37), bisogna tratteggiare un trapezio, simbolo della roccia, fondamento sul quale si erge verso l'alto una colonna, simbolo del ruolo e della funzione degli apostoli e dei loro successori, i vescovi. A loro sono collegati i sacerdoti e i diaconi, indicati dalle funi che partono dalla colonna. Ecco la struttura gerarchica essenziale della Chiesa. Come senza il fondamento e la colonna con le funi non vi è costruzione, così senza Pietro (Pietra) e i suoi successori e la colonna (gli apostoli) e i loro successori, non esiste la Chiesa.
Chi rifiuta Pietro e gli apostoli e i loro successori distrugge la Chiesa, il corpo di Cristo.
Lo schema illustra anche la dipendenza dei vescovi dal successore di Pietro. Soltanto sul fondamento della roccia, che è Pietro, e in stretta unione con lui, la colonna, ossia il collegio dei vescovi, può reggersi.
«Il collegio o corpo episcopale non ha autorità, se non lo si concepisce insieme con il romano Pontefice, quale suo capo. Come tale, questo collegio è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del romano Pontefice» (CCC 883).
La Chiesa, quale comunione di vita divino-uma-na, è il nucleo centrale dell'agape. L'elemento che consolida e unisce tutta la costruzione è il fondamento - la pietra, cioè Pietro.
«Nella comunione ecclesiastica, vi sono legittimamente delle chiese particolari, che godono delle proprie tradizioni, rimanendo integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale della carità» (Lumen gentium 13).
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L'uomo, grazie al battesimo, è accolto nella comunione di vita divina-umana; è innestato nel corpo di Cristo come un tralcio alla vite, è toccato dalla potenza dello Spirito Santo, Spirito dell'Amore, entra nella via del perfezionamento nell'amore e tende a configurarsi sempre più a Cristo.
Nella Chiesa primitiva il battesimo lo ricevevamo le persone adulte e significava la rottura con il peccato, con gli idoli e il totale e pieno volgersi verso Dio. Dopo il battesimo al cristiano restava soltanto una possibilità di penitenza e di perdono dei peccati, per mezzo della confessione, nel caso che commettesse qualche peccato grave; perciò egli rivolgeva tutta la sua attenzione a realizzare la santificazione nell'amore, cioè la perfezione.
Nel IV secolo, terminate le persecuzioni, molti entravano a far parte della Chiesa, mediante il battesimo, ma non non erano abbastanza maturi e preparati. Queste persone cadevano facilmente nel peccato.
Per dare loro la possibilità di convertirsi, la Chiesa permise di accostarsi più volte, dopo il battesimo, al sacramento della riconciliazione; oggi tale possibilità è illimitata.
Molte persone restano al primo livello di perfezione, quello della conversione, fino al termine della loro vita, usufruendo periodicamente del sacramento della riconciliazione. Per loro la via della perfezione sembra troppo difficile, e si accontentano di rimanere formalmente nella struttura del corpo di Cristo, la Chiesa. Si dimenticano, forse, della verità che l'uomo, creato a immagine e somiglianzà di Dio-amore, è naturalmente rivolto verso questo grande amore: il vero Dio o altri dèi. Ma non si possono servire due padroni, tuttavia molti ci provano. Per amare il vero Dio dedicano il cinque per cento, per servire gli idoli, il novantacinque per cento. Spesso accade che l'uomo scelga un amore che non è in grado di appagare la sete del suo cuore: ricchezza, consumismo, sesso, alcol, potere, celebrità.
Nella corsa verso questi pseudo-valori l'uomo consuma le proprie forze, viola i diritti, vive nella paura di venire smascherato nei suoi abusi, cade nella gelosia e nell'odio. La sua vita diventa spesso un incubo e una pena, una malattia e una schiavitù...
Molti cristiani, tali solo di nome, vivono in questo stato. La loro vita è priva di pace e di gioia autentica; per tutta la vita restano nella Chiesa, che è la scuola di Cristo, ma sempre nella prima classe. Quando giunge la morte non possono unirsi subito con Dio, il quale, nella sua grande misericordia, dona loro un'altra possibilità. Nel purgatorio l'uomo continua e completa il perfeziamento nell'amore, ma nella sofferenza. Per questo si parla di «fuoco purificatore».
Questa purificazione si protrae fin quando le persone giungono ad assomigliare a Cristo, all'amore perfetto, ovvero alla «maturità», nella scuola del Logos divino. Il perfetto amore permette loro di unirsi a Dio in eterno, di entrare nel paradiso, di godere della felicità eterna con Dio.
Diversa è la sorte di coloro che, tramite una radicale conversione, hanno percorso la via della perfezione e della crescita nell'amore. Le rinunzie e le fatiche sono vissute nella gioia, perché significano la scelta di valori veri e immutabili; la virtù è accumulare il vero tesoro, una bellezza che non appassisce. La loro via, nelle fatiche e nel lavoro, è contrassegnata dalla fede e dalla speranza. Le croci e le sofferenze sono accolte in obbedienza alla volontà del Padre che li ama. L'amore fa sì che il loro giogo diventi dolce e leggero (Mt 11,28-30).
La morte segna l'incontro con Dio-amore. Non disperano per la morte degli amici, credendo che un giorno li incontreranno nella casa del Padre. Cercano di amare perfettamente Dio e tutti gli uomini, anche i nemici. Vivendo nell'amore, vivono secondo la propria natura. Sono nella gioia e nella letizia; la prospettiva del paradiso li riempie di felicità. La loro vita qui sulla terra è già un'anticipazione del paradiso.
La via descritta (p. 41), ci spinge a trarre alcune conclusioni.
1. Colui che ama Dio e gli uomoni, secondo l'insegnamento di Gesù, già sulla terra giunge alla pace e gioia perfetta. Reso simile a Cristo, Dio-Uomo, unito a lui e al Padre nello Spirito Santo, partecipa già ora alla felicità dell'amore delle Persone divine, in attesa del ciclo.
2. Il cristiano «soltanto di nome», che non si impegna a perfezionarsi nell'amore e che sceglie il male, non raggiunge l'unità armoniosa di vita con Dio.
E in conflitto con il mondo e con il prossimo; è lacerato dalla paura e dall'incertezza. A causa del peccato rompe la comunione di vita con Dio e vi ritorna per mezzo del sacramento della riconciliazione. Ma in questo modo egli stesso ritarda la propria felicità. Dopo la morte nel purgatorio ci sarà quel processo di perfezione-purificazione che non ha realizzato sulla terra.
3. Chi coraggiosamente e coerentemente risponde alla chiamata di Dio e alla perfezione nell'amore, già sulla terra partecipa, in una certa misura, alla felicità del paradiso.
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La possibilità di entrare nella via dell'amore perfetto è data al credente per mezzo del battesimo, che segna l'accoglienza nel corpo di Cristo, la Chiesa. Senza il battesimo non c'è salvezza. Cristo prima della sua ascensione ha comandato agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Me 16,15-16).
Nasce dunque la domanda: Che ne sarà degli uomini di buona volonà che non hanno avuto la possibilità di conoscere il vangelo e di ricevere il battesimo? Bisogna osservare che esistono almeno tre tipologie di battesimo: di acqua, di martirio e di desiderio.
«Da sempre la Chiesa è fermamente convinta che quanti subiscono la morte a motivo della fede, senza • aver ricevuto il battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per e con Cristo. Questo battesimo di sangue, come pure il desiderio del battesimo, porta i frutti del battesimo, anche senza essere sacramento» (CCC 1258).
«Ogni uomo che, pur ignorando il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato. È lecito supporre che tali persone avrebbero desiderato esplicitamente il battesimo, se ne avessero conosciuta la necessità» (CCC 1260).
Per il battesimo di desiderio possono appartenere al popolo di Dio anche i credenti di altre fedi e gli atei. Questo principio è stato formulato dal Vaticano II:
«Infine, quelli che non hanno ancora ricevuto il vangelo, in vari modi sono ordinati al Popolo di Dio. Per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne. (...) Ma il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani... Infatti quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna.
Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di raggiungere la vita retta» (Lumen gentium 16).
Per illustrare nel nostro grafico (p. 44), la verità sopra esposta bisogna prolungare il triangolo in basso con una linea frastagliata, ricavando in questo modo uno spazio significante lo stato di chi con il battesimo di desiderio «sono ordinati al popolo di Dio».
In questo modo tutti gli uomini di buona volontà, che cercano Dio e si sforzano di compiere la sua volontà, possono per il battesimo di desiderio essere ordinati al popolo di Dio. Ma soltanto Dio conosce i cuori e le coscienze degli uomini e può indicare chi è da annoverare nel popolo di Dio.
Per questa ragione coloro che «pensano» di vivere onestamente e di essere annoverati da Dio nel numero dei salvati, possono anche sbagliarsi! Circa la salvezza non è giusto far affidamento al caso! La vita terrena è breve, a confronto con l'eternità! Se per le cose della terra cerchiamo giustamente forme di assicurazione (anche se la possibilità di una sciagura, per es. un incendio, è infinitesimale), quanto più dovremmo «assicurarci» per l'eternità!
La salvezza è dono di Dio e impegno umano; la salvezza si fonda sull'amore di Dio e del prossimo.
«Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo» (CCC 1033).
Scrive l'evangelista Giovanni: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1Gv 3,14-15).
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«Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli» (CCC 1033).
L'essenza del cristianesimo sta nell'amore. «Dio è amore» (iGv 4, 16). Tutti i precetti divini si compendiamo in uno solo: «Amerai» (Mt 22,37). Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Amerai con il pensiero, con la parola e con i fatti. Dio ha reso capace ogni uomo di un tale amore.
Dio ci ha munito con abbondanza di doni diversi. Talenti, possibilità di compiere il bene, salute, forze fisiche, benessere materiale e spirituale, sono doni che provengono da lui direttamente o indirettamente.
Ci sono dati affinchè li sviluppiamo nel servizio agli altri. Sull'esempio di Cristo, dobbiamo servire tutti, senza eccezioni.
San Pietro così ha riassunto l'opera di Gesù Cristo: «Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,37).
Su questo «buon» modo di agire, da comprendere in senso ampio, saremo giudicati da Dio. Cristo lo afferma chiaramente nella parabola dei talenti. I cristiani sono simili a quei servi, ai quali il padrone ha dato le proprie ricchezze. «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì» (Mt 25,17).
Come il padrone della parabola ha chiesto conto ai servi del denaro loro consegnato, così sarà per noi.
Il giudizio verterà sulle buone opere che abbiamo o non abbiamo fatto. Cristo ci domanderà se abbiamo dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da vestire ai nudi...
Accrescere i talenti comporta un lavoro quotidiano assiduo, non solo per un guadagno personale, ma per il bene della società; comprende lo studio per acquisire quella scienza che ci permette di compiere bene il nostro dovere di medico, di avvocato, di insegnante, di prete, di giornalista...
Il lavoro compiuto male, senza cura, è dispersione dei talenti ricevuti da Dio. Nessuno sa quanti talenti ha ricevuto da Dio. Per questo nessuno può dire di aver fatto già abbastanza nel bene.
Ognuno di noi dovrebbe sentire il costante desiderio di fare il bene nelle parole, nei pensieri e nelle opere. Dobbiamo curare la crescita dell'amore che ci spinge al bene.
Di qui l'esortazione di Paolo: «Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore» (Fil 2, 12). Il motore di questo atteggiamento è l'amore perfetto sull'esempio di Cristo.
Tutto quello che siamo e possediamo appartiene a Dio; a lui dovremo rendere conto di quanto ci è stato affidato. Chi ha ricevuto di più, dovrà saldare un conto più alto. Come salderanno i conti coloro che vivono nel lusso, mentre i loro fratelli vivono in povertà e miseria?
Quanto sarà difficile saldare il conto per chi compra costosissime automobili, mentre i vicini non hanno i soldi nemmeno per comprarsi da mangiare?
Cristo ha affermato: «Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!» (Le 18,24-25).
L'amore autentico rende gli uomini capaci di condividere generosamente i propri beni.
Che nessuno inganni se stesso: non si può entrare nel regno dei cicli senza un grande sforzo; ci vuole un grande amore per sopportare le fatiche e il lavoro.
«Il regno del cicli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11, 12): i violenti dell'amore di Dio, dello zelo di san Paolo, del costante desiderio di costruire il bene nei cuori degli uomini, nella famiglia dei figli di Dio.
L'amore perfetto di Dio e del prossimo «non cerca le cose proprie, ma si riversa sui fratelli, per loro è in pensiero, per loro compie sapienti pazzie» (Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur?, 31).
L'amore perfetto, rendendoci capaci di lavorare per il bene, sull'esempio di Cristo, è garanzia di salvezza. L'amore perfetto è fonte di gioia e pace. Cerchiamolo con dedizione. Chi lo possiede, ha trovato quella felicità e quella gioia alla quale Dio ha chiamato l'uomo per l'eternità.
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Ostatnia aktualizacja: 27.03.2006, godz. 10:32 - Anna Swęda